La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, mediante la sentenza 25 febbraio 2015, n. 3852, ha sancito l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore in prova per mancata specificazione scritta delle mansioni.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti: «Il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, in relazione alle quali il datore di lavoro dovrà esprimere la propria valutazione sull’esito della prova. Tale specificazione può essere operata anche “per relationem” alla qualifica di assunzione, ove questa […] corrisponda ad una declaratoria del contratto collettivo che definisca le mansioni comprese nella qualifica sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico» (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., n. 3852/2015; n. 1957/2011; n. 11722/2009).
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della giurisprudenza di merito che aveva ritenuto invalido il patto di prova per mancata specificazione delle mansioni nella lettera di assunzione, stante la genericità dell’indicazione contenuta nel contratto individuale (“marketing executive”). La Corte territoriale, in particolare, aveva affermato che «la conoscenza delle mansioni oggetto della prova acquisita “aliunde” (colloqui o siti internet) non poteva sostituire l’obbligo di specificazione scritta imposto dalla legge», evidenziando altresì, con ragionamento incensurabile in sede di legittimità, che la qualifica attribuita – di marketing executive – rappresentava «una definizione generica priva di concreti riferimenti alla funzione attribuibile […] e, dunque, le mansioni non erano specificabili neppure per relationem».
In tema di conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte territoriale, chiarendo che «l’importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto previsto dall’art. 18, quinto comma, della legge 30 maggio 1970, n. 300 (nella formulazione applicabile “ratione temporis”), rappresenta una parte irriducibile della obbligazione risarcitoria complessiva conseguente all’illegittimo licenziamento: detto importo minimo costituisce una presunzione “juris et de jure” del danno causato dal recesso (cfr. Cass. n. 22050/2014, 24242/2010, 24655/2006) ed è dovuto anche nel caso di specie così come correttamente deciso dal giudice in merito».

* Autore immagine: 123RF.

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Clemente Massimiani

Clemente Massimiani è Avvocato Giuslavorista nel Foro di Catania, Dottore di Ricerca in Diritto del Lavoro Europeo e più volte riconosciuto in ambito accademico Cultore della materia di Diritto del Lavoro, con una pluriennale esperienza in materia di Diritto del Lavoro privato e pubblico, Consulenza d’impresa, Relazioni Industriali, Diritto Sindacale e Diritto Previdenziale.