L’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, secondo l’insegnamento della giurisprudenza, postula il necessario bilanciamento tra obblighi e diritti del lavoratore, ed in particolare tra gli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede, previsti ai sensi degli articoli 2105, 1175 e 1375 del Codice Civile, ed il diritto alla libera formazione del pensiero di cui all’articolo 21 della Costituzione.

La recente sentenza 18 luglio 2017, n. 17735, della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, ribadisce e delimita i confini del suddetto diritto di critica.

Il necessario punto di partenza è costituito dall’obbligo di fedeltà, la cui violazione, chiarisce la Suprema Corte, «può rilevare come giusta causa di licenziamento».

Il suddetto obbligo di fedeltà, secondo i giudici di legittimità, «si sostanzia nell’obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso (ex plurimis, Cass. 8/7/2009 n. 16000, Cass. 10/12/2008 n. 29008, Cass. 3/11/1995 n. 11437)».

Entro il predetto alveo può trovare legittima cittadinanza il diritto di critica del lavoratore.

Nella citata sentenza n. 17735/2017 la Suprema Corte richiama la propria pregressa giurisprudenza, che ha evidenziato come «il diritto di critica debba rispettare il principio della continenza sostanziale (secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità) e quello della continenza formale (secondo cui l’esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente), precisandosi al riguardo che, nella valutazione del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della continenza c.d. formale, comportante anche l’osservanza della correttezza e civiltà delle espressioni utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturata, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite (cfr. in tali sensi Cass. 22/1/1996 n. 465 nonché Cass. 2/6/1997 n. 5947)».

Nell’ottica descritta, puntualizza la Corte, «è necessario andare alla ricerca di un bilanciamento dell’interesse che si assume leso con quello a che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantito (cfr. in tali sensi Cass. 22/1/1996 n. 465)».

Sulla scia degli esposti principi, ricordano i Giudici di Piazza Cavour, «è stato altresì rimarcato che l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa, costituendo il relativo accertamento giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se correttamente e congruamente motivato (vedi Cass. 10/12/2008, n. 29008, Cass. 8/7/2009, n. 16000, cui adde Cass. 26/10/2016 n. 21649 che ha ritenuto correttamente inquadrato nel legittimo diritto di critica l’invio al datore di lavoro di una lettera di denuncia del lavoratore di comportamenti scorretti ed offensivi posti in essere dal superiore gerarchico in proprio danno)».

Evidenzia inoltre la Corte che, in casi analoghi a quello sottoposto al rispettivo esame, la pregressa giurisprudenza di legittimità «ha escluso che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell’azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi (in tal senso vedi Cass. 14/3/2013 n. 6501, in motivazione, Cass. 17/1/2017 n. 996 e da ultimo, Cass. 16/2/2017, 4125)».

Sulla scorta dei predetti principi, è stato ritenuto legittimo, nel caso concreto, l’esercizio del diritto di critica da parte di un lavoratore che aveva denunciato l’abusivo ricorso della società datrice di lavoro agli ammortizzatori sociali, pure a fronte di un andamento estremamente positivo della attività produttiva aziendale.

Ciò, in quanto la Corte di merito si era «attenuta ai suesposti principi», aveva provveduto ad una «ricostruzione puntuale della condotta posta in essere dal lavoratore» ed aveva altresì rimarcato «come i fatti segnalati alla autorità giudiziaria riecheggiavano il contenuto di quelli già divulgati dalla stampa e discussi in sedi istituzionali».

Di conseguenza, «il profilo contenutistico del diritto di critica esercitato, si palesava, quindi, coerente con i canoni sostanziali entro i quali tale diritto andava esplicato» (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 18.07.2017, n. 17735).

Ne è scaturito, nel caso di specie, il rigetto del ricorso in Cassazione proposto dalla società datrice di lavoro.

* Autore immagine: 123RF.

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Clemente Massimiani

Clemente Massimiani è Avvocato Giuslavorista nel Foro di Catania, Dottore di Ricerca in Diritto del Lavoro Europeo e più volte riconosciuto in ambito accademico Cultore della materia di Diritto del Lavoro, con una pluriennale esperienza in materia di Diritto del Lavoro privato e pubblico, Consulenza d’impresa, Relazioni Industriali, Diritto Sindacale e Diritto Previdenziale.